Chiunque lavori in ambito educativo e scolastico vive proiettato verso il futuro, perché l’educazione è divenire, per sua natura. Un divenire che dovrebbe riguardare innanzitutto le possibilità messe a disposizione di chi si sta formando perché possa costruire il suo percorso di apprendimento e crescita.
Spesso, però, questa proiezione assume ben altri contorni, esterni e talora contraddittori. Ogni educatore e insegnante, infatti, sa che c’è sempre un ordine di scuola dopo il suo che ha delle attese rispetto a ciò che i bambini o i ragazzi devono sapere e saper fare per essere pronti al passaggio verso il grado successivo.
Le richieste possono essere espresse nelle forme più diverse – implicite, esplicite, assertive… – ma comunque il più delle volte finiscono per essere vissute come una pressione che si traduce in tensione a preparare i bambini per altro rispetto a ciò che stanno vivendo, qualcosa che ancora non c’è ma che prima o poi ci sarà e per cui bisogna essere pronti. Quel qualcosa, perlopiù, non riguarda la consapevolezza rispetto a quali sono le proprie propensioni, le proprie fatiche, il proprio modo di procedere, ma ha spesso a che fare con singole abilità, che vanno dall’essere capaci di stare seduti, di usare le forbici, di stare nelle righe, e via dicendo con il crescere dell’età. È l’attesa di prerequisiti per altri insegnamenti che verranno, non sempre noti e chiari a chi viene prima e comunque altri rispetto agli apprendimenti in corso.
Questo oggi è ancora più paradossale che in passato, se è vero, come ha ben sintetizzato John Holt, che nella complessità nella quale viviamo non possiamo sapere quale conoscenza sarà più necessaria in futuro, per cui non ha molto senso cercare di insegnarla in anticipo: piuttosto, occorre fare in modo che le persone amino imparare e siano capaci di farlo, per poter poi essere in grado di apprendere ciò che risulterà via via necessario.
Che si concordi o meno con questa posizione, resta il disagio, costante, tra chi viene prima e chi viene dopo, in una scuola che si preoccupa ancora troppo poco di condividere verticalmente i significati che attribuisce all’esperienza che propone. E che in tal modo non rende chiari quei significati neppure a quelli a cui sta provando ad insegnare. Così, non solo i colleghi degli ordini prima vivono il disagio di chi lavora in funzione di qualcosa che sarà e che non sa, ma anche gli stessi bambini vengono messi nella condizione di non vivere il qui ed ora dell’esperienza e della conoscenza, in attesa di comprendere – quasi sempre in un poi che deve venire e che spesso non arriverà mai – il senso di ciò che intanto si sta realizzando.
Non ovviano a questi gap gli incontri sulla continuità, generalmente circoscritti a momenti di attività condivise che poco aggiungono alla conoscenza reciproca, dei bambini e degli insegnanti. Piuttosto, occorrerebbe la volontà di raccontarsi, di mettere in dialogo le proprie idee di bambino, educazione, scuola, apprendimento… uscendo da stereotipi e mettendosi in ascolto. Questo presuppone, prima ancora, che dentro ad ogni scuola ci sia la possibilità di dichiararle con adesione e convinzione nei propri progetti, fuori dai formalismi degli adempimenti burocratici e nel desiderio di riconoscersi in un’identità condivisa e reale.
La scuola ha bisogno di dare altri tempi ai bambini, ma ha bisogno anche di trovare tempi per gli insegnanti, dentro e tra i diversi ordini, per tornare a farsi domande autentiche, aprire il confronto, generare identità desiderose di mettersi in dialogo, non dare per scontate le risposte, affrontare il cambiamento necessario.
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